Ricordi di un protagonista
IL BATTELLO (identità)
Smg. EVANGELISTA
TORRICELLI (S 512)
ex – USS LIZARDFISH (SS 373) - US Navy
classe “BALAO” – parzialmente convertito in “FLEET SNORKEL”
Prelevato a Pearl Harbor, Hawaii (USA)
In servizio nella Marina Militare Italiana dal 9 gennaio 1960 al 1° ottobre
1976
L’EQUIPAGGIO (composizione, quantità)
83 persone:
7 Ufficiali, 18 S/Ufficiali, 32 Sottocapi e 26 Comuni
La composizione dell’equipaggio è riportata nell’opuscolo
allegato .
Gli Ufficiali erano:
- C.C. Lino RAVALICO, Comandante
- C.C. Franco LANNOCCA, Comandante in 2ª
- Magg. GN Dario ALESSANDRINI, Direttore di Macchina
- T.V. Sergio RAGAZZONI, Ufficiale alle Armi
- Cap. GN Amerigo MELILLO, 1° Sottordine GN
- S.T.V. Alfredo FOCO, Ufficiale di Rotta
- S.Ten. GN Attilio “Duilio” RANIERI, 2° Sottordine GN
LA PREPARAZIONE (in Italia)
Poiché
l’equipaggio era quasi totalmente formato da personale già sommergibilista,
in massima parte proveniente dai nostri primi due battelli ex-USA, TAZZOLI e
DA VINCI, non fu necessaria alcuna preparazione preliminare. Pochissimi, non
più di tre o quattro, erano gli elementi nuovi.
L’equipaggio fu riunito a MARICOSOM nell’estate del ’59, ma
la partenza, più volte rinviata, ebbe luogo ad ottobre. La selezione
del personale tenne principalmente conto dell’esperienza sommergibilistica
già maturata (io, per esempio, ero stato tre anni sul TAZZOLI), evitando
comunque di designare gente che fosse già stata a New London cinque anni
prima. Che io ricordi, non ve n’era alcuno.
La conoscenza dell’inglese era mediamente modesta, al massimo scolastica;
qualcuno aveva seguito i corsi “Shenker” organizzati dalla Marina.
Comunque, la terminologia tecnica di bordo, acquisita sui precedenti battelli
ex-USA, era patrimonio di quasi tutti. Gli unici che parlavano l’inglese
“fluently” erano il 2°, Lannocca – il quale, durante la
cobelligeranza dopo l’8 settembre ’43, era stato a lungo col suo
battello alle Bermuda – e il Com.te Ravalico.
IL VIAGGIO DI ANDATA
La partenza
avvenne da Napoli, col transatlantico SATURNIA. Le operazioni per l’imbarco
dell’equipaggio e dei bagagli gravarono praticamente solo su di me e su
Alfredo Foco, gli unici senza moglie o fidanzata in banchina.
Il SATURNIA era diviso in tre classi, alle quali furono rispettivamente assegnati
gli ufficiali, i sottufficiali e i sottocapi e comuni. La 1ª classe era,
a dir poco, lussuosa anche se un po’ demodè, e i passeggeri, quasi
tutti americani, di livello elevato. Ogni sera si pranzava in dinner e gli ufficiali
italiani erano oggetto di particolare interesse.
Io avevo fatto amicizia con una famiglia di Santa Barbara (California), facoltosa
e raffinata (mi fecero notare che “okey” era volgare: meglio dire
“all right”), gente che ogni anno veniva in Italia per rinnovare
il guardaroba, a Firenze. Al loro tavolo feci la peggior gaffe della mia vita:
cercando di dire, col mio povero inglese, quanto gradita mi fosse la loro compagnia
e alludendo al rapporto di amicizia con la loro graziosa figlia, usai il termine
“intercourse”. Tutti sbiancarono! Ma la signora capì e, dopo
qualche istante di gelo, con molto garbo e un po’ di imbarazzo mi spiegò
perché quello non era il vocabolo più appropriato per definire
l’innocente relazione con la figlia. Mi sarei gettato in mare!
Fin dalla partenza familiarizzammo con gli ufficiali e il personale della nave:
ci consideravano colleghi, anche perché molti erano stati in Marina.
Più volte fummo invitati in plancia o in macchina per assistere a qualche
operazione particolare. Gli ufficiali di vascello furono aggiunti a quelli di
bordo che, ogni mezzogiorno, calcolavano e mediavano il punto nave “ufficiale”;
ufficiale perché serviva a designare il vincitore, in una sorta di gara
a pronostici, fra i passeggeri, invitati a stimare la posizione della nave.
La traversata fino a New York durò 13 piacevolissimi giorni, con soste
a Lisbona (splendida) e ad Halifax (un po’ squallida). Una vera e propria
crociera!.
Anche in 2ª e 3ª classe il personale ebbe vita bella e, all’arrivo
a New York, ci furono molti malinconici addii e tante promesse. Il Dir. Alessandrini
cercava di spiegarci perché, sulle navi da crociera, spesso i freni inibitori
si allentano.
In 1ª classe, il più serio e contegnoso di noi era Amerigo Melillo,
sposato da poco. Schivo e taciturno di carattere, non allacciò alcuna
amicizia né, tanto meno, relazione. Tuttavia, non poté sottrarsi
alle feste di gala perché invitato, come tutti noi, dal Comandante della
nave in persona. Così, una sera venne fotografato mentre, con apparente
vivo sollazzo, faceva giochi di società con una bella signora. Quando,
circa un anno dopo, col TORRICELLI andammo a Trieste, il Melillo e la giovane
moglie, passeggiando mano nella mano in Piazza dell’Unità, si trovarono
a passare davanti alle vetrine del Lloyd Triestino (armatore del SATURNIA) e
s’imbatterono in quella foto, riprodotta in gigantografia e lì
esposta perché ben rappresentativa della gaia vita di bordo. La moglie
non fu molto comprensiva!
A New York trascorremmo tre giorni, alloggiati in sistemazioni della Marina
americana. Non ricordo se all’arrivo fummo accolti dal nostro Addetto
Navale, il C.V. Vaccarisi, ma è probabile di sì. Poi, un aereo
della Marina ci portò a San Francisco, con breve sosta tecnica a Kansas
City. Anche lì restammo tre giorni e poi, sempre in aereo, raggiungemmo
le Hawaii. Durante quest’ultimo volo accadde che un portellone di emergenza
si aprisse spontaneamente. Più tardi ci spiegarono quanto pericoloso
avrebbe potuto essere quell’incidente.
LE PRIME ESPERIENZE
A parte
il primo contatto con l’America (eccitante! per quasi tutti noi era la
prima volta), in quelle due mitiche città, l’impatto con le Hawaii
fu davvero esaltante: eravamo giunti in un altro mondo! Il Dir. Alessandrini
diceva che era come se avessimo vinto una lotteria.
A Pearl Harbor fummo sistemati in “barracks” accoglienti e confortevoli,
a poca distanza dalla Base Sommergibili. Ci fu chiesto – e noi aderimmo
senza difficoltà – di uniformare la nostra tenuta di servizio a
quella loro: ufficiali e sottufficiali in kaki con camicia a maniche corte (ma
con stellette al colletto e gradi sul taschino) e marinai in jeans. Per i pasti,
fummo aggregati alle loro mense, con servizio a self service. In quella dei
marinai campeggiava una grande scritta che, pressappoco, suonava “prendetene
quanto volete, ma non di più di quanto potete mangiarne”; e così
accadeva, pena l’essere richiamati e redarguiti. Il cibo era buono, ma
difficile fu adattarsi alla frugalità del pasto di mezzogiorno, da consumarsi
in mezz’ora.
L’accoglienza fu molto amichevole, sia da parte della Marina che della
gente in generale. Il giornale di Pearl City si occupò più volte
di questo equipaggio italiano, venuto dall’altra parte della terra. Venivamo
spesso invitati a manifestazioni o anche a casa, specialmente dalla comunità
italiana, piccola ma vivace.
(Equipaggio del TORRICELLI in un articolo della stampa locale)
La Marina ci organizzò parecchie escursioni in luoghi di sogno e, addirittura,
con il battello (prima della consegna), trascorremmo un week-end all’isola
di Maui, meno turistica e molto suggestiva.
Il rapporto con gli americani della Base fu sempre cordialissimo, improntato
veramente ad una fattiva collaborazione. La lingua non fu mai un vero ostacolo:
riuscivamo sempre a farci capire. Caso mai, più difficile, talvolta,
era capire loro.
In fatto di lingua, un paio di divertenti episodi meritano di essere menzionati.
Poco dopo il nostro arrivo, il giornaletto della Base Sommergibili, “PATROL”,
sta preparando un servizio su di noi. Dalla redazione telefonano a bordo e chiedono
di parlare con qualcuno dell’equipaggio italiano. A chi va a rispondere
viene chiesto “What will be the name of your boat?” ma questo capisce
“… of your Pope” e, anche se la domanda gli sembra strana,
risponde deciso: “Giovanni XXIII”. Ovviamente, al giornale sorge
qualche dubbio e così, verso sera, prima di andare in stampa, un redattore
viene sotto bordo per avere conferma da un ufficiale italiano. Casualmente,
in quel momento sono io l’unico a bordo e tocca a me chiarire l’equivoco.
Qualche tempo dopo, un nostro giovane sottufficiale ha bisogno di un preservativo
e si reca al P.Ex dove, com’è noto, si vende di tutto. Gli addetti
alla vendita sono tutte ragazze e il “nostro” è un po’
a disagio nel porre la sua richiesta. Comunque, spara un secco “prophyilactic,
please”. La ragazza, per nulla in imbarazzo, domanda: “how many?”.
A lui ne serve uno solo e la risposta avrebbe dovuto essere “just one”
oppure “one bag”, come gli americani chiamano le singole bustine.
Ma, in quel frangente, l’unica risposta che il suo inglese gli suggerisce
è “one box”. La ragazza sgrana gli occhi e gli chiede conferma;
e lui gliela dà: “one box!”. Quando la ragazza, con un sorrisetto
malizioso - e richiamando l’attenzione delle altre commesse - mette sul
banco una confezione da 100 pezzi, egli si rende conto dell’equivoco,
ma non se la sente di obiettare alcunché, per non prolungare l’imbarazzante
situazione: prende la scatola e si porta alla cassa. La cassiera, impietosamente,
ad alta voce gli chiede: “Hi, are you Italian?” , mentre lui, imperterrito,
con la sua scatola sotto il braccio, si avvia all’uscita, attraversando
tutto il locale fra le risatine delle commesse. Questa storia fece il giro della
base,
Quanto alla franchigia, la meta preferita era, ovviamente, Honolulu che, a pochi
minuti di bus da Pearl City, offriva di tutto e a tutti i livelli.
Noi frequentavamo spesso l’International Village a Waikiki, dove si faceva
un buon caffè italiano. Quasi sempre i nostri marinai uscivano in divisa
ordinaria (bianca, stante il clima mite) e suscitavano l’ammirazione degli
americani perché erano sempre in ordine nella tenuta, si comportavano
correttamente (che io ricordi, non ci fu mai alcun problema) e, soprattutto,
rientravano sempre sobri: anche il venerdì sera, quando per i loro si
doveva mandare un pullman in giro per la città, a raccogliere gli ubriachi.
Inutile dire che i nostri “incontravano” molto con le ragazze. A
questo proposito, merita un cenno un episodio …romantico.
(da destra: GM RANIERI, CC RAVALICO, fanciulla indigena, STV FOCO)
Un giorno, il Console italiano informò il Comando di bordo che un nostro
giovanissimo motorista stava facendo i documenti per sposarsi sul luogo. Poiché
allora vigeva ancora la regola dei 25 anni, il Com.te Ravalico lo chiamò
e gli rappresentò tutti i guai cui sarebbe andato incontro. E anche tutti
noi, convinti che si trattasse di una infatuazione qualunque, facemmo a gara
a dissuaderlo. Ma quando conoscemmo la ragazza, una mezzo-sangue cinese di una
bellezza mozzafiato, allora cambiammo opinione e facemmo il tifo per lui. Tuttavia,
saggiamente, il ragazzo seguì i consigli del Comandante. Poi, qualche
tempo dopo il rientro in Italia, si congedò e, con l’unanime approvazione
di tutto l’equipaggio, andò a raggiungere la sua bellissima ragazza.
La prudery degli americani a quell’epoca era notevole, per lo meno nell’ambiente
che ci circondava. Basti pensare che, quando in quadrato c’erano delle
signore, prima di raccontare una storiella spinta io e Foco venivamo pregati
di uscire, perché ancora scapoli. Così, in questo clima, quando
parve che una giovane signora stesse insidiando troppo dappresso uno di noi
(peraltro, non insensibile), il marito, un ufficiale dell’ USS SARGO,
venne trasferito da un giorno all’altro.
LA PREPARAZIONE (in America)
Come già
detto, l’equipaggio proveniva nella maggior parte dai nostri precedenti
battelli ex-USA, molto simili al LIZARDFISH, e quindi non c’era necessità
di particolare addestramento. Questo lo sapevano anche gli americani che, infatti,
non avevano predisposto alcunché.
Tuttavia, quando facemmo la prima uscita con loro, accaddero alcune cose (in
perfetta linea con la legge di Murphy!):
Morale:
l’indomani fummo tutti invitati (salvo il Comandante, naturalmente) a
passare dal “Training Center” della base, dove esisteva anche un
simulatore dinamico. Va da sé che, in mezza giornata, constatata la nostra
effettiva preparazione, fummo tutti abilitati; rimasero solo i due timonieri
inesperti, affidati alle cure del nostromo italiano. Io me la cavai con dieci
minuti di guardia all’assetto e un “cessa snorkel” con disimpegno.
Fu questa la mia prima esperienza al simulatore, che mi segnò indelebilmente,
tanto che, assolutamente convinto della sua efficacia addestrativa, per il resto
della mia vita in servizio mi sono instancabilmente adoperato, fino al successo,
acciocché se ne realizzasse uno anche da noi.
Addestramento già programmato era, invece, quello alla fuoruscita dalla
vasca da 100 piedi, che nessuno di noi aveva ancora mai affrontato; l’unica
esperienza precedente, e neppure per tutti, era quella fatta alla vecchia vasca
“Belloni” della Farinati, ormai però funzionante parzialmente,
con un solo metro di battente d’acqua.
La fuoruscita vera e propria era preceduta da istruzione teorica ed esercitazioni
pratiche all’asciutto, per apprendere e memorizzare tutte le azioni da
compiere in garitta, secondo procedure da seguire alla lettera, pena l’esclusione
(per qualcuno accadde) dalla prova effettiva. Questa, con l’assistenza
di sanitari e di subacquei in acqua, era obbligatoria per la fuoruscita da 30
e 60 piedi, mentre era facoltativa quella da 100. Sembrando una sfida, orgogliosamente
la facemmo quasi tutti, e senza problemi.
In fatto di sicurezza, è notoria la puntigliosità degli americani,
talvolta esagerata ai nostri occhi. Essendo io stato affiancato ad un giovane
ufficiale per seguire e controllare i preparativi per l’immersione, rimasi
favorevolmente colpito quando, nel verificare la chiusura delle porte stagne,
costui tirò fuori una banconota e provò ad inserirla sotto ogni
cane, onde accertarne l’effettiva presa, e prendendo nota di quelli mal
regolati. Ma quando, nella successiva uscita, constatai che la situazione non
era cambiata e glielo feci notare, egli candidamente mi rispose che non toccava
a lui rimediare al difetto e proseguì, ineffabile, nella sua manfrina
con la banconota, come da norme. Naturalmente, dopo altre uscite senza alcuna
correzione, provvedemmo noi italiani alla registrazione di tutti i cani; cosa
che, poi, l’ufficiale constatò, ma senza fare alcun commento. Avevo
imparato qualcosa della mentalità americana, per lo meno in campo tecnico:
la suddivisione strettamente settoriale delle competenze, che forse è
la vera forza della loro organizzazione, indiscutibilmente efficace.
(Il TORRICELLI in navigazione)
Tutto quello che s’ha da fare è già dettagliatamente pianificato
da qualcuno (le famose libraries, presenti in ogni base) e agli altri non resta
che eseguire pedissequamente le istruzioni, ciascuno per la parte di competenza.
Ma quando si deve affrontare qualcosa di nuovo, non pianificato, allora il sistema
va in crisi. Ci impressionò veder sfilare e rimontare un periscopio,
in tre ore, per sostituirne le tenute; operazione che da noi avrebbe richiesto
almeno un paio di giorni. Quando, però, si trattò di applicare
a prora, stando in banchina, le piastre con il nome del battello (cosa che loro
non prevedono; le lettere romane in bronzo le avevamo portate dall’Italia),
ci vollero diversi giorni e la nostra fantasiosa collaborazione per superare
tutte le difficoltà pratiche.
IL BATTELLO (condizioni)
Quando
arrivammo a Pearl Harbor il battello era già in bacino per carenamento.
Il refitting, consistente nella parziale conversione in “Fleet Snorkel”,
era finito da poco. In generale, le condizioni erano molto buone.
Della nostra preparazione ho già detto; pertanto, l’addestramento
alla presa del battello avvenne per singolo affiancamento, almeno per gli incarichi
chiave. Fino alla consegna del battello, l’equipaggio americano non era
al completo ma sufficiente alla bisogna. Dopo, una parte di esso restò
con noi fino alla partenza. Si effettuarono numerose uscite in mare, mediamente
2 o 3 alla settimana. Comunque, il venerdì a mezzogiorno cessava ogni
attività e ci si ripresentava a bordo alle 9 del lunedì. Certamente
gli americani registrarono e valutarono via via la nostra idoneità a
condurre il battello in sicurezza ma, dopo quel primo passaggio al “Training
Center”, non ricordo alcun altro tipo di esame.
A nostro beneficio, gli americani avevano previsto la sostituzione di tutte
le scritte di bordo (targhette, volantini, ecc.) con altre in italiano ed avevano
approntato una gran quantità di disegni riproducenti, in scala al vero,
ogni oggetto da sostituire con, a fianco, la sagoma dell’oggetto stesso
in bianco, dove noi avremmo dovuto riportare la traduzione in italiano. Tuttavia:
si decise opportunamente di non dar corso all’operazione. Come diceva il Dir. Alessandrini, era più economico e sicuro far imparare alla gente quel poco di inglese necessario.
(USS Lizardfish)
Durante il carenamento, sullo scafo affiorò una pittura rosa simile a
quella che si vede nel film “Operazione sottoveste” (“The
pink submarine”) e, poiché gli americani ci dissero che proprio
il LIZARDFISH era stato il battello protagonista di quel film, così abbiamo
creduto a lungo Ma, in tempi recenti, “Aria alla Rapida!...” ha
saputo da fonte attendibile che non è così: il battello utilizzato
era stato un altro e quel colore rosa era probabilmente dovuto al viraggio,
nel tempo, della pittura protettiva al minio.
LA CONSEGNA
La cerimonia della consegna, il 9 gennaio 1960, è descritta nel servizio del giornale “PATROL” e nell’opuscolo col programma.
(click per ingrandire)
Aggiungo solo che, non ricordo per iniziativa di chi, si volle che, fra le esecuzioni della banda, fosse inserita anche la nostra “Canzone dei Sommergibili”, in memoria dei nostri Caduti, sebbene in Italia essa fosse ancora all’indice perché ritenuta un inno fascista. Ma la banda della base ne era sprovvista e così ci mettemmo io (che allora ero un discreto pianista: avevo anche suonato in un concerto di beneficenza all’Officer’s Club), e il Chief Band Master e stendemmo le parti per tutta la banda. Alla cerimonia ne sortì un’ottima esecuzione.
(Cerimonia di consegna del TORRICELLI)
Dopo l’alzata della bandiera italiana cessò, ovviamente, la severa
proibizione della US Navy per gli alcolici a bordo. Così, una mattina
trovammo il D.M. americano, in mensa equipaggio, davanti ad una trentina di
lattine di birra vuote. Era la sua rivincita!.
Dopo la consegna restammo a Pearl Harbor ancora un paio di mesi, per completare
l’addestramento. Alla partenza fummo salutati da una piccola folla, con
tanti “Aloha!”, tante collane di fiori al collo e, soprattutto,
tante ragazze in lacrime. C’erano, naturalmente, tutti i vertici militari
della base e il Console italiano, ma non ricordo altre autorità italiane.
IL VIAGGIO DI RITORNO
Lasciammo
Pearl Harbor alle 9 del mattino del 19 febbraio del ’60 e arrivammo a
Taranto il 6 aprile successivo. Durante tutta la navigazione ci immergemmo solo
poche volte, perché c’era fretta di rientrare. Non ricordo particolari
avarie: tutto filò liscio.
Si fece sosta a Balboa, a Key West e a Gibilterra. In ogni porto trovavamo i
sacchi della posta. Di questi, uno era sempre completamente destinato ad un
giovane silurista da parte di una sua innamorata affranta che, verosimilmente
afflitta da grafomania, gli scriveva decine di lettere ogni giorno.
Durante la traversata in Pacifico provammo ad usare il cannone di cui il battello
era dotato, un obice da 5 pollici a canna corta, installato a poppavia della
vela. Nel deposito munizioni c’erano cinque colpi che non risultavano
“a carico” e che, quindi, potevano essere consumati. L’unico
che sapesse qualcosa di artiglieria era il 2°, Lannocca, che prima di fare
il sommergibilista aveva preso la specializzazione ’a’ piccolo.
Il cannone fu brandeggiato al traverso e puntato vagamente sugli spruzzi di
un branco di cetacei in lontananza. Ma poiché nessuno si fidava di stare
vicino all’arma al momento del “fuoco”, il nostromo organizzò
una cimetta che permetteva di azionare il grilletto stando riparati a proravia
della vela. E così fu fatto. Lo sparo fece un botto impressionante, specialmente
entro bordo. Le stoviglie saltarono dai loro alloggi, molte lampadine si bruciarono.
Allora si decise di non andare oltre. Quello era stato l’ultimo colpo
sparato da quel cannone, che fu sbarcato subito dopo l’arrivo in Italia.
Dopo tanti anni in un magazzino a Buffoluto, ora è custodito dalla Scuola
Sommergibili, che lo esibirà nell’area antistante quando i lavori
di ampliamento attualmente in corso saranno stati ultimati.
(Il cannone del TORRICELLI)
L’attraversamento del Canale di Panama fu interessantissimo ed eccitante:
era la prima volta per tutti noi e per un sommergibile italiano. Il pilota della
Compagnia, oltre ai documenti formali, ci chiese qualcosa per ricordare l’evento.
Mi pare che gli fu data una foto del battello, con firme e timbri di bordo.
Durante la sosta a Key West ci raggiunse un camion con delle testate che, previste
fra i rispetti a corredo del battello, non si erano potute imbarcare a Pearl
Harbor perché colà non disponibili. Solo che, in luogo dei 10
pezzi previsti, per un errore nei documenti, il camion ne portava 100 e il conducente
non intendeva portarsi indietro l’eccedenza. Ci volle del bello e del
buono per convincerlo che, anche volendo, a bordo non c’era lo spazio
necessario.
Era quello il tempo delle “vacche grasse” nella US Navy, prima dell’avvento
di Mc Namara alla Difesa, con i suoi drastici tagli. Al nostro sommergibile
era stato assegnato un certo budget, entro il quale potevamo facilmente prelevare
quanto ci occorreva. Anch’io, misero 2° sottordine, potevo staccare
un bill da un certo blocchetto e ordinare materiali.
La sosta successiva fu a Gibilterra. Qui accadde qualcosa: il tentativo di alcuni
dei nostri di “rapire” una delle scimmiette della Rocca. Pare (io
non ero presente) che fossero già riusciti a portarla a bordo. Ma prontamente
arrivò la polizia inglese, non si sa da chi avvisata, che ne pretese
l’immediata restituzione, minacciando di arrestare i colpevoli. I buoni
uffici di Lannocca, che presentò il fatto come una “ragazzata”,
riuscirono ad evitare complicazioni.
(Il TORRICELLI in navigazione - passaggio di posta)
All’arrivo a Taranto, fuori delle ostruzioni fummo accolti da due unità,
mi sembra due dragamine, che ci scortarono in porto. Sui bordi del Canale Navigabile
erano schierate due file di marinai, oltre alla banda e al picchetto sul Castello.
Andammo ad ormeggiarci al molo di Porta Ponente, dove ci attendeva il C.V. Domenico
Romano con tutto lo staff di COMGRUPSOM (a quell’epoca MARICOSOM era stato
declassato) e una gran folla di parenti e amici, a stento arginati da transenne.
C’era anche la mia fidanzata, di lì a poco mia moglie.-
Taranto,
20 marzo 2004
Amm. Attilio Duilio RANIERI
(Il TORRICELLI a Taranto)